Ultimo aggiornamento: 18/09/2004 |
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Piergiorgio Odifreddi,
“LA REPUBBLICA DEI NUMERI”, Scienza e Idee, Collana diretta
da Giulio Giorello, Raffaello Cortina Editore, Prima edizione 2002 Nella
Prefazione di questo volume, viene citato quanto afferma Platone nella Repubblica:
“…L’aritmetica va imparata non per tenere la contabilità delle
vendite e degli acquisti, come farebbe un commerciante o un bottegaio, ma
per facilitare la radicale conversione dell’anima dal mondo del divenire
a quello della verità e dell’essere”. Il programma scolastico di
Platone proseguiva, naturalmente, con la geometria e l’astronomia. Come
sottolinea l’autore, tale ideale proposta platonica riteneva che la
formazione delle classi lavoratrici (e soprattutto
quella delle classi dirigenti), dovesse basarsi sulla matematica e
sulla scienza; Piergiorgio Odifreddi è pienamente d’accordo,
come dimostrano il titolo stesso del libro e
le seguenti parole nella XIII pagina: “…Ma verrà ben un
futuro, c’è da sperare, in cui capiremo che la vera fede dell’uomo è
la ragione e la sua vera patria l’universo! Allora potremo finalmente
dichiarare: «Siamo tutti
matematici», perché ci accorgeremo che la matematica è l’unico vero
sapere che ci accomuna storicamente nel tempo e geograficamente nello
spazio, oltre che il miglior modello che abbiamo di razionalità e,
dunque, di tolleranza.” Il
volume, esattamente come il precedente “Il computer di Dio” (da
me già recensito qui
) Ho apprezzato moltissimo soprattutto gli ultimi quattro capitoli (è possibile che altri possano essere attratti, invece, dai primi; è solo questione di interessi diversi: ci sono coloro che prediligono l’argomento politico e quelli che optano per letture più tecniche, o semplicemente riguardanti la biografia dei grandi matematici. Mi limito a introdurre, in breve, il contenuto dei seguenti paragrafi (scelti in base esclusivamente a quello che io definisco il mio “gusto estetico personale” ): 1)
Matematica esoterica 2)
I computer di domani 3)
Alle Ricerche del Trattato perduto Nel
primo si spiega come Pitagora stabilì di dividere la sua attività di
insegnamento in due campi, che noi chiameremmo di ricerca e di
divulgazione (e che i Greci chiamavano esoterico ed essoterico, cioè
“interno” ed “esterno”). Una parte era dedicata a un pubblico di
semplici ascoltatori, detti “acusmatici” (parola derivante da akoustos
= “udito”), l’altra era rivolta ai veri e propri apprendisti, detti
“matematici” (nome che deriva da mathema =
“apprendimento”). I matematici erano perciò, in origine, coloro a cui
venivano comunicate quelle teorie che, per la loro complessità o per la
loro delicatezza, non potevano essere di dominio pubblico. La suddivisione
dell’insegnamento in due settori, uno riservato agli addetti ai lavori e
l’altro dedicato al grande pubblico coinvolge l’intera storia della
filosofia e sono innumerevoli i filosofi che hanno dedicato parte del loro
lavoro alla divulgazione. La maggioranza dei filosofi e degli scienziati considera l’attività di divulgazione importante per diffondere i risultati della ricerca. I matematici, però, sembrano riluttanti a tradurre il contenuto esoterico della propria disciplina in termini comprensibili a tutti, com’è invece imperativo nell’era dei mezzi di informazione di massa. Si
ricorda che “alcuni grandi matematici hanno già additato nel passato la
strada dell’alta divulgazione, producendo opere durature che mantengono
tuttora intatta la loro leggibilità”; viene citato, come esempio,
Eulero le cui meravigliose Lettere a una principessa tedesca, “che
si potrebbero definire una raccolta di elzeviri di una rubrica settimanale
ad usum delphini”, rappresentano
l’unica opera, dell’immensa produzione del grande matematico, che venga
letta ancora oggi. Piergiorgio Odifreddi conclude auspicando che la matematica possa “uscire dal ghetto dell’esoterismo nel quale è stata […] troppo a lungo confinata, per entrare finalmente a far parte della cultura dell’uomo contemporaneo…” Nel
paragrafo “I computer di domani” si sottolinea come l’idea del
computer sia il prodotto di una lunga evoluzione; fu Alan Turing che,
“partendo da problematiche di natura puramente logica, legate ai teoremi
di limitazione della matematica scoperti pochi anni prima da Kurt Godel,
[…] inventò una macchina in grado di effettuare tutti i calcoli
teoricamente possibili. La sua idea geniale, che avrebbe cambiato il mondo,
fu di progettare una macchina programmabile: in grado, cioè, di
imitare qualunque altra macchina calcolatrice, simulandone una sua
descrizione. […] Nacquero così i primi calcolatori elettronici,
progettati da John von Neumann sul modello della macchina programmabile
ideata da Turing: dapprima a valvole, poi a transistor e infine a circuiti
integrati.[…] Negli ultimi due decenni sono stati proposti due nuovi
modelli, che potrebbero portare a radicali miglioramenti di efficienza: il computer
quantistico e il computer biologico…”, ma devono ancora
essere superati gli ostacoli, che sussistono per la loro costruzione
pratica. Se tali ostacoli saranno risolti, i computer di domani lavoreranno a velocità
elevate e a costi energetici molto bassi, andando a sostituire quelli che
oggi ci appaiono come miracoli tecnologici. Il
paragrafo “Alle Ricerche del Trattato perduto” è dedicato a Ludwig
Wittgenstein, considerato da molti il più rappresentativo filosofo del
Novecento. L’autore precisa che a creare tale “leggenda” ha
contribuito non poco il personaggio, che apparteneva a una delle più
ricche e singolari famiglie viennesi. (Il fratello Paul, ad esempio, era
un famoso pianista e, quando perse in guerra la mano destra, Ravel scrisse
per lui il Concerto per mano sinistra sola) “Nel
suo primo libro, Wittgenstein dichiarò […] di aver trovato la «soluzione
definitiva» dei problemi della logica. Il libro si intitolava Tractatus
Logico-Philosophicus e il suo motto era “Ciò che si sa si può dire
in tre parole” […] La sostanza del Tractatus è presto detta: il
mondo, il pensiero e il linguaggio hanno la stessa struttura […] Nella
parte centrale del Tractatus, Wittgenstein si concentrò sulla
logica, alla quale egli pensava si riducesse il linguaggio. Naturalmente,
altri l’avevano studiata prima di lui; per esempio, il suo maestro
Bertrand Russell, che qualche anno prima ne aveva effettuato un’analisi
sintattica: basata, cioè, sul concetto di dimostrazione. Wittgenstein
propose, nel suo libro, un’analisi semantica: basata , cioè, sul
concetto di verità. Entrambi credettero che i loro approcci fossero
contrapposti, e non si accorsero che erano invece complementari. […]”.
Piegiorgio Odifreddi sottolinea che oggi
il Tractatus è ricordato soprattutto per la frase “Su ciò di
cui non si può parlare, si deve tacere”, frase memorabile, ma non così
originale come si pensa. Infatti Lorenzo Da Ponte, nel 1786, a chi lo
invitava a non collaborare con Mozart a un soggetto tratto dalle proibite Nozze
di Figaro” aveva risposto: “Su ciò di cui non si può parlare, si
può cantare”. L’autore
spiega, poi, come a Wittgenstein venne in mente l’idea centrale delle Ricerche
filosofiche: durante una passeggiata con il fisico Freeman Dyson,
osservando un campo da calcio, dove si stava svolgendo una partita, si
accorse che anche nel linguaggio non facciamo altro che giocare con le
parole e ne dedusse che come non esiste un unico gioco universale, non
c’è neanche un linguaggio universale, contrariamente a quanto avevano
creduto i logici. “Inoltre, così come non ha senso chiedersi se le
regole di un gioco siano vere, non ha senso parlare di verità
linguistica: tutto si riduce a imparare le regole del gioco, e a
comportarsi di conseguenza. In particolare, il significato di una parola
sta nel suo uso…” Si
precisa che le teorie delle Ricerche filosofiche erano già state
largamente anticipate, soprattutto “dai matematici francesi riuniti
sotto il fittizio nome di Bourbaki, che a partire dagli anni Trenta, e
indipendentemente da Wittgenstein, rifondarono la matematica sulla base di
una gran varietà di strutture assiomatiche, corrispondenti a vari giochi
linguistici.” Mi sono limitata ad accennare al contenuto di tre paragrafi sui sessantatré presenti nel libro, in ognuno dei quali c'è una critica costruttiva, unita a una sferzante analisi di fatti passati e presenti, espressa in forma chiara e coinvolgente, con quello stile ironico, piacevole e inconfondibile, che caratterizza gli scritti divulgativi dell’autore. Ringrazio molto Piergiorgio Odifreddi, che con la consueta gentilezza, e con una disponibilità ammirevole, ha letto e approvato la mia recensione, prima che fosse pubblicata. | ||